SCHEDE DI STORIA #12
L’importanza dei maceri molinellesi
Testi di Giorgio Golinelli
Cura redazionale di Michele Simone
C’è stato un tempo (‘800-inizio ‘900) nel quale erano presenti sul nostro territorio comunale più di cento maceri, gran parte dei quali ubicati nelle campagne di San Martino in Argine, Miravalle, “La Prazzina”, Barattino, Guarda, “la Malvezza”, Buriane, “Giovagnone” e San Pietro Capofiume. Di questi ne sono rimasti, oggi, poco più di una quarantina tra i quali pochissimi in relativo buon stato di conservazione. Tutti gli altri sono stati interrati. Ma, dalle nostre parti, la storia dei maceri, risale al ‘500 e forse ancora prima. Della loro presenza (e della coltivazione della canapa) troviamo infatti prime notizie a partire dal 1512, e altre negli anni 1524 e 1546, ma solo nel territorio della giurisdizione della Pieve di San Martino in Argine (e prima ancora nel budriese) e ad introdurli furono i grossi proprietari terrieri dell’epoca (i Leoni, Ghisilieri o Ghisleri, Benni, Isolani, Volta, Gozzadini, Zambeccari, Buttrigari, Ranuzzi, Bianchi, Pepoli e Malvezzi). Da questi maceri veniva ricavata la canapa greggia che veniva poi acquistata da grossi commercianti bolognesi e budriesi che, dopo averla ceduta agli opifici bolognesi, veniva esportata nella Repubblica della “Serenissima” (Venezia), in Olanda e persino in Inghilterra dove era utilizzata, per le sua qualità e resistenza, principalmente per costruire vele e cordami per le navi. A questo proposito va ricordato che l’Italia, tra l’800 e il primo ‘900, era tra le maggiori produttrici di canapa in Europa e che il Bolognese (e l’Emilia Romagna in genere) era l’epicentro della canapicoltura italiana.
Di solito i nostri maceri avevano forma rettangolare con lato maggiore di circa 20-25 metri e lato minore di 12-15 metri e insistevano a poca distanza dalle case coloniche. Il livello della vasca d’acqua era assicurato dalle falde acquifere o da una apertura collegata a contigui corsi d’acqua. La “macerazione” della canapa avveniva per affondamento delle “mannelle” (fasci) poste su apposite zattere cariche di grossi sassi: mannelle che, rimanevano sott’acqua per una settimana o una decina di giorni, per poi essere estratte e portate a riva e sull’aia e accatastate in forma conica (le famose “prille”) per l’asciugatura. Era questo un lavoraccio duro e faticoso perché svolto dai contadini durante il caldo dell’estate avanzata, tra insetti e zanzare e il puzzone generato dalla canapa macerata. In realtà la canapicoltura iniziava in primavera con l’aratura del campo e la semina a mano e poi con la sarchiatura. Raggiunta l’altezza di oltre due metri, le piante di canapa, con la fioritura, iniziavano a generare un intenso e inebriante odore, essendo esse un noto stupefacente. Poi durante l’estate avanzata seguiva il taglio e la raccolta effettuata dai contadini mediante una falcetta o “tajen” che abbatteva gli steli a raso terra. Alle donne il compito di raccogliere gli steli e di comporre delle “mannelle” che poi venivano portate, con carri trainati da quadrupedi, sull’aia dove venivano tolti i semi, battuti gli steli per togliere il fogliame, ridotti alla stessa misura ed essiccati. Dopo l’asciugatura seguivano altre fasi di lavorazione: la “scavezzatura” e la “gramolatura” per rendere la fibra o stoppa contenuta negli steli più liscia e morbida, per poi passare alla “pettinatura” eseguita da esperti canapini o gargiolai del posto. Un lavoro quindi molto impegnativo, oltre che faticoso, che alla fine produceva un reddito, anche se ad arricchirsi erano i grossi proprietari, i commercianti e gli imprenditori degli opifici bolognesi.
A questo proposito vale la pena di ricordare che lo scienziato-inventore molinellese, Sebastiano Zavaglia (1824-1876) ideò, nel 1868, una nuova decanapulatrice-gramolatrice che incontrò molto successo tra gli agricoltori e che gli valse una Medaglia d’Oro ad un concorso promosso dal Consorzio Agrario di Ferrara. Ma torniamo a noi. Il raffinato lavoro dei gargiolai molinellesi, veniva quindi trasformato in mazzi da 25 kg e trasportati nei canapifici soprattutto bolognesi per la lavorazione meccanica finale per poi essere esportato in Italia e all’estero. Una parte piccola del quantitativo di canapa prodotto dai contadini rimaneva nelle case per i bisogni personali/famigliari. Essa veniva filata e tessuta a mano, nelle case, dalle “arzdoure” e dalle loro figlie durante l’inverno, con tanto di rocca, filo e bacinella d’acqua e/o con l’uso di ampi telai (200 circa quelli censiti nel territorio comunale nella seconda metà dell’800). Un lavoro prezioso di tessitura, eseguito da donne veramente esperte, che consentiva di ricavare lenzuola, tovaglie e indumenti grezzi per il lavoro nei campi. E venivano pure prodotti cordami e cordicelle.
Nel 1851, tra i “Maestri” imprenditori gargiolai più noti a Molinella c’erano Giuseppe Massarenti (nonno dell’omonimo socialista che ancora doveva nascere), che occupava 14 addetti e due ragazzi, Francesco Martelli, che dava lavoro a 17 operai e 6 ragazzi, Domenico Sgarzi, che occupava 20 operai e 4 ragazzi, Giovanni Medini, che occupava 11 operai e 3 ragazzi, Domenico Antonio Roversi, con 15 operai e 3 ragazzi, Clemente Viviani, con 4 operai e due ragazzi, Francesco Tullini, con 2 operai e un ragazzo, Paolo Medini, con 11 operai e un ragazzo, Raffaele Medini, con 9 operai e 3 ragazzi, Luigi Medini, con 9 operai e un ragazzo e Domenico Medini, con 4 operai. Tutti questi imprenditori artigiani erano regolarmente iscritti alla Camera di Commercio, Arti e Manifatture di Bologna, e tutti questi operai erano pagati giornalmente 21 baj (baiocchi). Una forza lavoro dunque composta da 11 titolari artigiani, 116 operai e 26 ragazzi, per un totale di 153 addetti. Senza contare una quantità imprecisata di donne (almeno 300-400) che a domicilio filavano a mano il gargiolo con filatoi e telai. Una realtà economica quindi importante per Molinella e frazioni. I maceri (“masadùr”), infine, erano (e sono) una vera e propria riserva d’acqua non potabile nella quale si potevano allevare pesci, dalla quale attingere l’acqua per innaffiare l’orto, far nuotare le anatre e offrire un piccolo eco-sistema ai nostri anfibi e volatili.
Come predetto in apertura, l’epoca d’oro dei maceri e della coltivazione della canapa dalle nostre parti fu tra l’800 e la prima parte del ‘900 per poi decadere progressivamente con l’avvento di nuove fibre come il cotone o quelle sintetiche portate dal progresso. Di questa secolare coltivazione e dei maceri non rimane praticamente più nulla, a parte una quarantina di “vasche” abbandonate a se stesse e qualche strumento di lavoro (gramolatrici e scavezzatrici, tajen e telai) conservati in qualche scantinato, magazzino o soffitta. Per vederli bisogna recarsi a Selva Malvezzi presso il locale museo della civiltà contadina o a quello di Bentivoglio. Eppure i maceri e la canapa hanno rappresentato per secoli, e sino al secondo dopoguerra, una delle più caratteristiche attività economiche rurali, una testimonianza concreta del nostro paesaggio. Nessuna nostalgia, sia ben chiaro, per questa dura e faticosa attività contadina, ma se vogliamo salvare ciò che resta di un mondo che sta scomparendo, è necessario farci carico di queste ultime testimonianze del passato che fanno parte della nostra storia e cultura.
Uno dei maceri di Guarda in una foto degli anni ’70 del secolo scorso
I maceri di Guarda in una cartina del 1880-90 circa, cerchiati in blu tutti gli 11 maceri censiti con il relativo numero
Trasporto con carri di fasci di canapa
Molinella 1950, uno degli ultimi maceri in funzione
Gramolatura della canapa
Molinella, altra immagine di un macero (foto Daniele Artioli)
Illustrazione sulla predisposizione dei maceri
Macero ritratto dal pittore Luigi Bertelli (1833-1916) probabilmente situato a San Pietro Capofiume o dintorni